di Elsa Berardi
Secondo la pedagogia tradizionale, l’incompiutezza e le carenze contenute in un lavoro programmato o le esternazioni di uno stato d’animo che si rivelano insufficienti a descriverlo rappresentano, nell’individuo osservato, il picco della debolezza o delle reticenze: un bambino che non termina di colorare il suo disegno non appare come semplicemente svogliato, ma rivela inconsapevolmente un atteggiamento di per sé inconcludente.
Eppure di “non finiti” è disseminata la totalità dell’arte, ed è proprio nell’assorbire l’incompiutezza della tecnica elevata a poesia che rintracciamo il senso della conclusione di un progetto e della concretizzazione di un intento, imparando così che la nostra vita è patrocinata dalle insufficienze (non solo quelle scolastiche!) e dai passi indietro, che a ben guardare sono la corsa più spedita dell’anima verso una mentalità adulta e improntata al realismo, non ai suoi nichilistici peggiorativi…
Vogliamo quindi ammettere che un bambino non sia in grado di produrre arte e denominare “pseudo-scienza” la pedagogia? Non è certamente questa la strada giusta per accettare l’incompiutezza e prevenire o curare il disturbo, di qualsiasi natura esso sia: analizzare i comportamenti diffusi e le loro ripercussioni sulla vita di chi li manifesta è fare scienza clinica dell’umano, mentre partire dal prodotto artistico di un pensiero, di una credenza o di più riflessioni è fare scienza filosofica dell’umano. Così come si compensano la religione e l’irreligiosità, la luce e le tenebre, il caldo e il freddo, l’uomo e la donna, l’amante e l’amato, le scienze cliniche e le scienze filosofiche non dovrebbero contrastarsi e nutrire schiere di paladini armati (c’è già una guerra in corso, non abbiamo bisogno di quelle ideologiche) pronti ad avversarsi, ma integrarsi reciprocamente e trovare un solido punto d’unione.
Veniamo alle scienze filosofiche, quelle che abbracciano il senso ultimo dell’arte, provando a scavare in esse per spolverare qualche ricordo relativo alla trattazione dell’incompiutezza, il nocciolo di questo articolo. Il non finito nell’arte figurativa è divenuto una poetica studiata e una tecnica largamente applicata, soprattutto in scultura: quante lezioni di storia dell’arte sono scivolate via a studenti che, sovrappensiero, non hanno potuto o voluto cogliere il significato dei numerosi non finiti di Medardo Rosso? Beh, perdoniamoli: in fondo la novità e la “stranezza” lasciano sempre interdetti! In Giappone, però, lo schivato Medardo sarebbe quasi un eroe nazionale: la sua cifra artistica non sarebbe sicuramente seconda alla sua shibumi, la bellezza ruvida, discreta, irregolare delle sue opere. Cosa si intende con questo termine esotico?
La desinenza -mi, che deriva da nakami 中身, sostanza, fa qualificare l’aggettivo shibui, aspro, ruvido, come sostantivo, conferendogli uno status di maniera esistenziale, piuttosto che di isolata attribuzione. Siamo abituati a descrivere “il ragazzo docile e discreto dell’ultimo banco” come un concentrato di mancanze (forse di carattere, di lucentezza interiore) e a relegarlo ad una spanna di indefinitezza, quando invece il suo naturale comportamento apparentemente fermo e distaccato è, secondo i nipponici, il massimo dello splendore: l’essenzialità è essenza perché basta a se stessa e non è il barocco della manchevolezza, ma il neoclassico dell’eccellenza.
Quindi l’estrema ratio per essere considerati belli da un nipponico è rifuggire l’eccesso, non circondarsi di buona compagnia e preferire un morigerato riso in bianco al giro pizza del sabato sera? In larga parte sì, ma non bisogna mai dimenticarsi che la filosofia è declinabile, non lapidaria: un eudaimonista vero è colui che non si preclude nulla, nemmeno la minima tentazione, perché non c’è male più subdolo della repressione e non c’è essenzialità più pura di quella che passa attraverso il godimento e che associa la materialità al benessere.
Le parole di un Kierkegaard ostinatamente angosciato non ci devono spaventare, ma porci davanti ad un interrogativo: prendere, quindi accogliere la sua filosofia con tutti i tratti insani e ossessivi che presenta oppure rigettarla e rinunciare ad un’occasione di crescita personale? Se si sceglie di accogliere, che non ci si faccia del male, mentre se si sceglie di rinunciare a Kierkegaard, che non si viva con il senso di colpa: ci si esplori l’anima per pervenire, invece, al ruvido e inavvicinabile carattere della mediazione, quel territorio così apparentemente lontano e così caldamente essenziale che ci predispone a non tuffarci nell’estremo, nel bigotto, nel concluso.
Quando un bambino non termina di colorare un disegno, è forse solo svogliato, ma che non si accolga la sua mancanza d’interesse per il lavoro che ha iniziato né la si punisca: l’essenza bilancia sempre il ring imperituro delle parti, perché non vi è sopra, ma così dentro da nuotarci in stile libero. Ed è sempre oro olimpico!
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