di Elsa Berardi
Ci sono criteri immortali per sondare l’appartenenza di un individuo a un focolare valoriale più o meno designato: quello che instrada a comprendere se una persona sia davvero magnanima, coraggiosa o sanamente orgogliosa nelle varie situazioni è la misura della corrispondenza tra ciò che dimostra e come si sente di essere, cosa si sente di dare nella sua intima profondità.

Non siamo stati, però, programmati per assolvere soltanto a funzioni benefiche, almeno a livello universale, ma anche per vivere ogni giorno all’insegna della propria bellezza interiore e per permettere a sé stessi, più che agli altri, di apprezzarla. Il lascito reale della religione cristiana è in esatta controtendenza rispetto al pensiero contemporaneo: tra profili Instagram di psicologia a chilometro zero che predicano una sottomissione servizievole a un determinato “sistema”, è il Dio dei cattolici a promulgare l’unicità del singolo fedele in quanto retta direttrice del proprio orientamento, via maestra che impartisce il rispetto reciproco e bandisce la sottomissione.
L’unicità, tradizionalmente donataci dallo stesso Signore, consiste nell’esternazione della misura del proprio amare, una ricchezza da non sperperare in maniera acritica e inconcludente: il bene deve innanzitutto trasparire attraverso la cura, la dedizione, la grazia del concentrarsi sul particolare, etichette sentimentali associabili al talento e alla dimostrazione del suo esserci. Monsignor Romano Rossi, vescovo di Civita Castellana dal 2007 al 2022, è stato accolto dalla comunità del nostro paese, all’interno della chiesa di Santa Maria Maggiore, da una talentuosa capacità di compattezza che ha siglato, non in maniera definitiva, il suo saluto alla diocesi: nonostante l’età avanzata e le difficoltà di articolazione dei movimenti fisici, Rossi ha saputo stimolare la caparbietà quasi apostolica dei fedeli presenti, pronti all’espressione della gratitudine.
La cerimonia del saluto al vescovo, svoltasi a Civita Castellana nel tardo pomeriggio del 30 dicembre 2022, è iniziata con un brano musicale festoso suonato dalla banda locale, che ha annunciato l’ingresso nel duomo delle cariche religiose. La messa ha avuto luogo attraverso un percorso strutturato in una successione di testimonianze: tra le più caratteristiche e impattanti a livello emotivo sono da ricordare quelle delle famiglie. In particolare, una donna, moglie e madre, ha deciso di avventurarsi nella difficile allegoria del cibo, in quanto primario nutrimento da servire ai propri figli, esattamente come lo è la fede per i credenti maturi: il puro concetto, in realtà foriero di un’avvincente naturalezza, potrebbe essere facilmente decontestualizzato al di fuori dell’ambiente ecclesiastico, tacciato spesso di ostacolare l’emancipazione di genere. Emanciparsi, però, significa, da etimologia, liberarsi dal controllo del padre di famiglia e si sa bene quanto sia soggettiva l’interpretazione dello stesso verbo: nell’ottica cristiana contemporanea, l’acquisizione di meriti relativi a un mestiere e la facoltativa volontà di regalare la luce a un bambino possono concorrere a togliere il mancipium a chiunque lo desideri, purché la persona in questione sia consapevole di essere amata.
Romano Rossi, durante il suo intenso episcopato quindicennale, ha ben saputo cogliere le criticità nell’interpretazione della religione, tant’è che durante il suo discorso di arrivederci alla diocesi civitonica ha tentato di smarcare la chiamata di Dio dalla tenaglia della presunzione di predestinazione, una proiezione tipicamente esclusivista e che mal si concilia con sensazioni di appannaggio comunitario, gli ingredienti per l’amore del collettivo tanto caro a Gesù. Il vescovo ha asserito di essersi sentito un tutt’uno con i fratelli che hanno compiuto il dono di castità, mostrandosi nello stesso tempo particolarmente riconoscente alla comunità laica che l’ha visto guidare i sacramenti, invitata ad assistere all’entrata in carica del vescovo Marco Salvi l’8 gennaio. Non sono mancati riferimenti ai testi greci e latini da parte di Rossi e degli altri religiosi, quasi per comunicare che la cultura non presuppone lo schieramento elitario, ma il sostegno della fratellanza attiva di chi la possiede. La visuale del vescovo, però, rimane fissa sul futuro: non esiste credente, ateo o agnostico che non abbia speranza di perfezionare il proprio amore, di farlo evolvere sulla scia del bisogno che c’è di riceverlo. La strada per farlo non è necessariamente incapsulata in un testo sacro: dobbiamo andare ed espanderci senza snaturarci, elevare il nostro benessere nella speranza di un domani più prospero e non infliggerci la falsa terapia dell’assenza del sorriso, in quanto chi crede e confida nella propria umiltà è davvero il primo uomo forte.
Durante la cerimonia, ogni fedele ha cantato, alcuni bambini erano abbracciati ai propri familiari, i giovani delle parrocchie, tra una risata testarda e uno sbadiglio fisiologico, hanno colto il senso più intrinseco dei discorsi ascoltati, quel senso che rimane inavvicinabile a chi non confida nel futuro, soprattutto anagrafico, del nostro mondo.
La scuola della fede è rimasta scolpita in ogni sguardo, liberando tutti i pensieri distruttivi. E come ogni scuola nasce dall’errore, anche questo evento ha inciso sulle carenze di ognuno, nella loro caratteristica a non colmarsi mai: anche la fine di una carica ecclesiastica rappresenta una condizione di eterno divenire.
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