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Calma africana, velocità europea: il Marocco a misura di sogno italiano

Elsa Berardi

Qualcosa di affine alla salicornia, nel vasto e variopinto memoriale di uno stilista, sa contornare sulla terraferma lidi artificiali di vasi blu cobalto, sgargianti di una tinta omonima dei giardini che li ospita: il nome che il colore ha assunto è quello di “majorelle”, una parola dalla pronuncia tanto carezzevole quanto terribilmente lontana dalle sfumature del Mediterraneo.  

I bambini dei turisti si lagnano intorno -come non comprenderli- di aver fame, sete, sonno; d’altronde il loro senso artistico si gioca tra il divertimento spassionato e l’inondare i genitori di domande, le stesse che si pone una guardia benvestita di fronte alla processione di cellulari che, circondando il museo berbero, non conoscono posa di sorta. Il biglietto, necessario per entrare a lasciare gli occhi sui monili intarsiati, è la prima scrematura per la fila di avventori: “Mon Dieu!”, pensano in tanti, “Seigneur!”, si pensa ancora, dato che qualcuno ha dimenticato di collegarsi al sito dei giardini, dove le visite alle zone iconiche possono essere prenotate.  

Una micro-società già organizzata, differente dalle baraonde nel cuore pulsante di Marrakech, sembra aver posto sotto un’egida europea l’incanto irriformabile dei Giardini Majorelle: gli scatti per i parenti, che vivono in Francia, in Spagna o in Italia, riversano sulle piante un groviglio di storie taciute, di desideri inconsapevoli, ignoti alle stesse persone che li trattengono. Uno tra i molti è il più comune, quello di avere un ricordo: una mamma si filma tra i fiori con un neonato nel marsupio, mentre una coppia di giovani amanti si fa incorniciare con i cactus alle spalle. Si cammina a lungo per popolare la serra: impronta da “imprimere” e non c’è nulla di più geniale del movimento che esporta sogni. 

Jemaa el Fnaa, a Marrakech, è la piazza principale. Il miscuglio di cromatismi che libera fa convergere i pensieri nel rosso bruno, rosso Imlil, sentenzierebbe un bimbo. Imlil all’alba è terra bruciata, colpita dal sole, percossa dai canti, mentre Chefchaouen ride leggera sotto un velo di commozione. L’intero mondo è fiera ξενία e spesso i volti si incontrano perché si è troppo simili, tanto da scegliere per sé stessi il pane raffermo e per l’ospite amato, quel mago dalla favella esotica, una nuvola di pagnotta da intingere nella tajine. Le olive si offrono come in una carestia, assicurandosi che tutti le gradiscano: non è possibile rifiutare, non è possibile farsi da parte! Sul piatto si lascia solo l’ombra del proprio viso, mentre accanto ad esso si fa campeggiare qualche dirham di mancia. 

“Buffalo mozzarella with olive oil: that’s nice!”, ha confessato Youssef disinvolto, il conducteur della mia famiglia per l’escursione all’Ourika valley. La sua timidezza lo schermiva di tanto in tanto. Ci ha lasciati per qualche minuto in balia dei dromedari posizionati a bordo strada. Due foto, un giro su di essi e duecento dirham, meno di venti euro, nelle mani di chi ci ha scortati perché non cadessimo. Mamma mia, venti euro! Mamma mia, sì, ma la mamma terra, da cui trae i suoi frutti chi ha famiglia, è una garanzia per chi aspira a riempire la ciotola, magari di mozzarella in nostro ricordo. 

Mohammed ha un riad, ma è un tipo esterofilo: si fa chiamare Momo, suona meglio, è più pratico. E soprattutto gli piace di più, o forse non lo sopporta e spera nel calore dei benvenuti. Non ci interessava, ci svegliavamo felici. Saida e Fatima vegliavano sui nostri umori, discrete come zie che vivono lontano. Una spazzava il pavimento, l’altra ci lasciava degli specchi di baghrir, frittelle forate solo in superficie, linde come la vera accoglienza. Se Sadik, guida turistica amante dei caftani, sapesse che di certa amicizia si può godere anche in tuta… Beh, non avremmo vita facile, dovremmo spiegargli che è sufficiente connettere i cuori. Forse lui potrebbe saperlo, ma preferisce, riservato in apparenza, augurarci il meglio stringendoci la mano: quando racconta ha un cambiamento radicale, dispiega con affetto i versi del suo vissuto. 

Una calma africana lasciava fluire i nostri timori, affidandoli ai banani e alle palme. Era europea, sinceramente europea, la velocità di scorrimento del traffico; erano europei i jingle svelti delle radio. 

“Chez Yassine” è un pullulare di prendisole a fiori, mocassini, selfie, infradito, cappelli di paglia. La calamita dei biondi clienti? La pizza, sua maestà, il cardine del mangiare italiano. Quel dommage, però, non ho potuto consumarla, neanche per curiosità. Sarà per le mille (e una notte) prossime! Il nome del locale mi ha ricondotta ai mondiali in Qatar, in particolare a Yassine Bounou, portiere della nazionale di calcio marocchina. “Lui è bravo, bravissimo – ci assicuravano – ma Hakimi, Achraf Hakimi, è il vostro Totti”. 

Totti. La Roma. “La lupa!”, ha esclamato Momo, capace di fissare nella sua mente una storia millenaria, che spesso si riduce al suo simbolo più dolce. Se “Roma” è per lui uguale a “lupa”, c’è davvero speranza perché tutti, anche chi non ha avuto la fortuna di innamorarsene, possano godere della realtà viva nella mitologia.  

Il minareto è alto, come le note del richiamo del muezzin e i desideri della gioventù marocchina. I ragazzi che ottengono un alto rendimento lasciano la scuola per abitare i college francesi, che li portano al sicuro, come funzionava nell’antica Medersa Ben Youssef, il monumento della scuola coranica di Marrakech. Una sola differenza, in questo accostamento, emerge viva: quegli studenti, destinati al successo, si riconosceranno nella sola cultura adottiva. “Mai dimenticare le proprie radici!”, ha tuonato Sadik: gli alberi crescono a partire da quelle stesse. Talvolta, oltre a fare ombra, sono anche giacimenti di ossigeno: la nostra persona diventa completa se passato e presente si intrecciano indivisibili, come negli intarsi dei monili. Come due mani che, con strette vicendevoli, sono capaci di tenersi al caldo, di essere per l’altra mano una casa affidabile.  

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